Il Patto della Scienza sui Beni Collettivi, in discussione questa settimana a #LabExpo evidenzia correttamente come ogni discorso sui beni collettivi sia un discorso sui diritti di proprietà. Quando economisti e sociologi parlano di beni collettivi li definiscono generalmente su un solo modello giuridico di proprietà, quello contemporaneo, considerandolo privo di reali alternative. La nozione moderna di proprietà è centrata sull’idea di esclusività: da una prospettiva giuridica identifichiamo il proprietario nella sua capacità di escludere i terzi dal rapporto col bene oggetto del suo diritto. Egli potrebbe decidere di non usare della cosa, ma non per questo cesserebbe di esserne proprietario; ma se decide di non escludere i terzi dalla sua cosa egli può perdere il suo diritto, perché altri potrebbe appropriarsi della cosa al posto suo.
Il fatto dell’appropriazione, ossia quell’azione che trasforma la natura di un bene facendolo diventare oggetto di un diritto esclusivo è del resto al centro del tradizionale dibattito sui commons: finché resta in mare, il pesce non è in proprietà di nessuno; diventa in proprietà di qualcuno nel momento in cui viene pescato, ossia fatto oggetto di appropriazione. La tragedia dei beni comuni nasce dal fatto che l’appropriazione è in linea di principio un’attività libera (Hardin), e si può evitare solo quando questa libertà viene limitata attraverso una qualsiasi forma di regolamentazione, che gli stessi soggetti interessati allo sfruttamento della risorsa comune pongono in essere per scongiurarne l’estinzione (Ostrom).
Il problema della scienza giuridica è che quest’ultima non può limitarsi ad accertare l’esistenza o meno di una forma di regolamentazione, ma deve analizzarne la struttura e verificare come risorga i conflitti fra diversi interessati all’uso del bene comune. Percorrendo questa strada è però evidente che esistono modelli proprietari alternativi, che spesso le teorie economiche non considerano.
Un esempio può rendere tutto più chiaro. In Governing the Commons, Elinor Ostrom prende in considerazione la vicenda del villaggio di pescatori di Alanya (Turchia). Essi erano naturalmente in competizione per sfruttare le zone di pesca più proficue; così facendo, tuttavia, stavano mettendo a rischio la riproducibilità della risorsa, col rischio concreto che nessuno riuscisse più a pescare nel futuro. Alla metà degli anni 70 i pescatori di Alanya si danno una semplice regolamentazione: all’inizio della stagione di pesca, che dura diversi mesi, a ogni barca da pesca viene assegnata una determinata zona di pesca, individuata dividendo l’intero braccio di mare come un foglio a quadretti (o, se si preferisce vista la materia, come in un gioco di “battaglia navale”). La zona assegnata non sarà sfruttata in esclusiva dalla singola imbarcazione: sarà solo la casella di partenza di un giro che durerà per l’intera stagione e che porterà quindi ogni singola barca da pesca a pescare almeno una volta in ogni singola zona. Ogni giorno ogni barca si sposta di una casella, per cui ciascuna ha le stesse chances di pesca, il che non significa che alla fine ciascuna barca avrà pescato le stesse quantità.
Questo sistema di autoregolamentazione non costruisce un modello alternativo di proprietà. Il bene in senso proprio (la risorsa ittica) è sempre in proprietà di nessuno finché non viene pescato e, dopo, diventa di proprietà di chi lo ha tratto dal mare. Il luogo da cui la risorsa viene estratta (lo spazio di mare dinanzi Alanya) non acquisisce per questo alcun regime giuridico particolare: esso rimane un qualsiasi tratto di mare territoriale. Più in radice, il sistema non può escludere terzi dall’uso del bene comune: il pescatore estraneo alla comunità ha pieno diritto di pescare, e se rispetta le regole di turnazione, lo fa su base volontaria. Detto in altri termini, la tutela della regolamentazione avviene su base obbligatoria: il singolo pescatore si obbliga verso gli altri, a condizione paritetica, a rispettare la turnazione, affrontando in caso contrario delle sanzioni.
Esistono però modelli di autoregolamentazione dell’uso della risorsa su base reale. Essi consentono di escludere gli estranei e danno luogo a un modello alternativo di proprietà, pur presentando significativi punti in comune con il caso di Alanya. L’esempio è quello delle Partecipanze emiliane: terreni un tempo paludosi, bonificati col lavoro di generazioni durante molti secoli, che assicurano oggi ai discendenti la proprietà collettiva di enormi estensioni di terreno perfettamente coltivabile. Questo è stato nel tempo centuriato, ossia diviso secondo assi cartesiani esattamente come le zone di pesca di Alanya. Ogni appezzamento viene attribuito per un periodo, in genere fissato in 19 anni, a uno dei partecipanti. Questi lo coltiverà e lo trasferirà al nuovo assegnatario, e ne prenderà a sua volta un altro. In questo modo, le chances di coltivazione si ripartiscono uniformemente fra i legittimati, con lo stesso scopo della regolamentazione di Alanya: impedire il sovrasfruttamento che, in un terreno idraulicamente instabile, può significare la perdita della risorsa per tutti. La vera differenza con Alanya è nel fatto che i partecipanti possono escludere qualsiasi terzo e che, per questo, il bene è assoggettato a una propria disciplina, che comprende l’inalienabilità e l’indivisibilità.