Il Tar Marche si pronuncia su una vicenda ricorrente nel diritto demaniale: la permanenza della concessione a un soggetto fallito e la possibilità per il fallimento di chiederne il rinnovo.
Il fatto: la curatela fallimentare di una società chiese e ottenne il rinnovo per due anni della concessione dell’area portuale sede del cantiere navale da lei gestito. Avvicinandosi la vendita del complesso aziendale della fallita, il Comune di Civitanova Marche inviava alla curatela una comunicazione con la quale si riservava ogni decisione in merito al rinnovo della concessione, ribadendo che, alla sua scadenza, l’area avrebbe dovuto esserle riconsegnata, salva l’acquisizione al demanio delle strutture non amovibili, ai sensi dell’art. 49 del Codice della Navigazione.
La curatela presentò un’istanza di rinnovo della concessione che venne respinta dal Comune, il quale sosteneva di dover procedere a gara, ai sensi dell’art. 1, L. n. 25 del 2010 di conversione del D.Lgs. n. 194 del 2009. Il Comune dispose poi per la riconsegna dell’area demaniale in pristino stato, e l’acquisizione delle opere non rimovibili allo Stato.
Il Tar rigetta il ricorso della curatela sull’argomento per cui il concessionario di un bene demaniale non può vantare alcuna aspettativa al rinnovo della concessione, né la sua posizione di ex concessionario gli conferisce una legittimazione particolare sul bene, che può essere messo a gara alla scadenza della concessione senza una particolare motivazione da parte dell’amministrazione. Il Tar precisa che l’esistenza di opere non amovibili del concessionario non può influenzare la decisione dell’ente di mettere a gara la concessione.
Un argomento che certo si basa sulla lettera dell’art. 49 del Codice della Navigazione, ma che pure lascia aperto più di un problema.
L’amministrazione del fallimento spende infatti soldi che sono dei creditori allo scopo di realizzare le migliori condizioni possibili per la vendita dei beni dell’impresa: nel caso di specie, la curatela ha chiesto il rinnovo della concessione per poter preservare la continuità del complesso imprenditoriale, che sperava ragionevolmente di vendere in blocco. Deriva dalla decisione del Tar di Ancona che il poco attivo eventualmente presente dovrebbe essere dedicato alla rimessa in pristino dell’area demaniale, cosa che l’amministrazione del fallimento potrebbe essere condannata a fare, o ancora che i beni strumentali dell’azienda fallita possano essere avocati allo Stato, per il quale rappresenterebbero solo un problema, nella massima parte dei casi.
Una decisione che mostra come l’art. 49 sia in realtà in contrasto con i principi della disciplina comunitaria: se la concessione demaniale non può eccedere una certa durata e deve essere sempre messa a gara, il concessionario che decade dalla concessione perché questa viene vinta da un altro non può perdere automaticamente il valore dei propri investimenti, amovibili o meno che siano. L’ampia discrezionalità che la P.A. ha nell’imporre la rimozione o l’avocazione allo Stato delle opere diventa, in questa vicenda, una vera e propria turbativa del mercato: se decide per l’avocazione, lo Stato diventa proprietario di beni che vengono concessi insieme al bene demaniale e aumentano così il valore della concessione a tutto danno del privato che questo valore ha costituito.
La norma provoca effetti ancora peggiori nel fallimento, ove la P.A., con un atto di discrezionalità sostanzialmente libera, priva i creditori di ogni attivo.
Ulteriore prova, se ve ne fosse bisogno, che le direttive comunitarie non possono essere implementate nel nostro ordinamento semplicemente traducendole, e senza riformare di conseguenza le norme interne precedenti e variamente coinvolte.