Notaio e usi civici. Un’analisi della recente giurisprudenza di merito.

E’ tornato di attualità in questi giorni il ruolo del notaio nella stipula di un immobile gravato da usi civici. Da una parte, la campagna twitter contro il ridimensionamento del ruolo del notaio contenuto nel ddl c.d. “liberalizzazioni” con l’hashtag #rottamalatutela, evidenzia quotidianamente come tra le competenze proprie (e insostituibili) del notaio vi sia quella di tutelare il cittadino da “usi civici, livelli e privilegi”. Dall’altra, una sentenza del Tribunale di Avezzano (la si può vedere sul sito www.expartecreditoris.it a questo link) riapre il dibattito sulla responsabilità del notaio per il mancato rilevamento di usi civici sull’immobile oggetto di un suo atto. La sentenza abruzzese riprende quella del Tribunale di Napoli, VIII sez. civile, del 6 marzo 2014.

Entrambe le pronunce mostrano le difficoltà che la disciplina attuale degli usi civici pone al giudice civile, che è portato a trovare certificazione della loro esistenza in registri che non esistono, o che comunque non possono dare pubblica fede di questo fatto.

Il Tribunale di Napoli condannò un notaio, e per esso la sua assicurazione, a rifondere un istituto bancario che non aveva potuto pignorare l’edificio sul quale aveva costituito ipoteca a seguito della stipula di un mutuo, perché costruito su terreno gravato da usi civici. Il consulente tecnico nominato dal giudice dell’esecuzione aveva potuto agevolmente conoscere dell’esistenza di usi civici sul terreno chiedendo all’ufficio usi civici della Regione Campania. Lo stesso consulente aveva poi svolto delle indagini “catastali storiche”, da cui emergevano “elementi dai quali poter senz’altro desumere la sussistenza di un “canone” o “livello” gravante a carico del fondo di cui si tratta ed in favore del Comune di Castelvolturno”.

In questo ragionamento si celano due errori e una contraddizione.

Il primo errore è nel ritenere che le Regioni tengano registri dotati di effetto legale quanto all’esistenza di usi civici. Vero che le Regioni hanno spesso promosso delle verifiche demaniali, e che anzi hanno rivendicato a sé questo potere con proprie leggi, ma queste attività amministrative non possono accertare con efficacia di giudicato l’esistenza di diritti reali, quali sono per definizione gli usi civici. Ciò compete esclusivamente al giudice naturale precostituito per legge, ossia al Commissario liquidatore degli usi civici, cui può essere sempre chiesto di accertare l’inesistenza di diritti di civico godimento, anche ove questi siano stati accertati dalla verifica amministrativa della Regione o del Comune. Malgrado le leggi regionali dicano in genere che le verifiche demaniali divengano esecutive ove non opposte in un breve termine dalla loro pubblicazione, il soggetto che ha interesse ha sempre il diritto di adire il Commissario, perché dinanzi a lui non si discute della legittimità dell’atto in sé, ma dell’esistenza o meno della situazione giuridica reale che lo giustifica.

Il secondo errore è nell’identificare il livello intercorrente tra il Comune e il privato con l’uso civico.

Qui è la contraddizione: se esiste il primo, non può esistere il secondo.

Un “livello” tra un Comune e un privato può esistere solo come parte di un procedimento di liquidazione degli usi civici: il bene soggetto a diritti di promiscuo godimento veniva frazionato tra i legittimari, in modo che ciascuno avesse il dominio utile ma esclusivo di una porzione del più ampio compendio. E’ anche il procedimento seguito dalla legge in vigore, la n. 1766 del 1927, per le terre atte alla coltura agraria (c.d. categoria b). Ove però sulle iscrizioni catastali si trova il termine “livello” e non quello di “canone enfiteutico” si può essere ragionevolmente sicuri che non si tratta di una liquidazione ai sensi della legge del 1927, ma di una più antica procedura. Per la Campania, si parla ovviamente della legge di eversione della feudalità promulgata nel 1806 da Giuseppe Bonaparte e ben nota agli specialisti.

Se ciò è, tuttavia, è evidente che non si può parlare di uso civico, e che quindi ben avrebbe potuto la banca esecutante chiedere, anche in via di surroga del proprio debitore, la declaratoria di inesistenza del diritto civico al Commissario competente, come l’intervenuta interversione del possesso e usucapione del fondo da parte dei danti causa del debitore stesso.

Il livello di cui alla legislazione napoleonica deve ritenersi infatti soggetto a prescrizione, a differenza del canone enfiteutico di cui alla l. n. 1766/27.

Il Tribunale di Avezzano segue quello di Napoli nel primo errore. Per questa sentenza, il registro prescritto dall’art. 5 del R.D. 26 febbraio 1928 n. 332, di attuazione della l. 1766 del 1927, e tenuto presso i Commissariati, non è strumento sufficiente per accertare l’esistenza o meno degli usi civici sul territorio, per cui il Notaio è negligente se non consulta anche la Regione. Argomento fallace, poiché il registro del Commissario si basa su un accertamento giudiziale e in contraddittorio di un diritto, mentre le notizie regionali sono frutto di una semplice attività amministrativa. Questa differenza è ben evidenziata dallo studio n. 777 (21 maggio 1994) della Commissione Studi del Consiglio nazionale del notariato, che il Tribunale di Avezzano cita, ritenendone però insufficienti le conclusioni.

Su tutto è, ancora una volta, l’inerzia del legislatore, il quale dovrebbe, a quasi novant’anni dalla legge del 1927, disciplinare organicamente la materia. Una disciplina che, in ogni caso, non potrà prescindere dalla Costituzione, la quale vuole che dei diritti – quali sono per definizione gli usi civici – possa conoscere solo il giudice, non la P.A.

Tribunale di Napoli Sentenza 6 marzo 2014