La Corte di cassazione manca con questa sentenza l’occasione di tracciare una distinzione tra il regime ordinario degli usi civici e quello proprio nelle singole realtà di proprietà collettiva cosiddette “chiuse”.
Questo il caso: nel 1995 una comunanza agraria cambia il proprio statuto, e stabilisce che i suoi terreni saranno aperti all’uso di tutti cittadini residenti nel suo territorio di riferimento. Si oppongono taluni utenti che, proprietari privati di fondi confinanti, ritengono che il titolo originario di proprietà collettiva ne limitasse l’uso esclusivamente a loro. Gli stessi, invece che ricorrere al giudice amministrativo contro la delibera di approvazione del nuovo statuto, presentano ricorso dinanzi al competente Commissario per la liquidazione degli usi civici, chiedendo che fosse da lui accertato e dichiarato il diritto di “proprietà collettiva di natura privata” dei beni intestati alla comunanza agraria. Il Commissario rigettò il ricorso, decisione che fu confermata in sede di reclamo dalla Corte d’appello di Roma. Questa ritenne che esulasse dalla propria competenza ogni decisione circa la legittimità dello statuto, e che pertanto non avesse rilevanza la domanda dei ricorrenti, i quali non contestavano l’esistenza dell’uso civico, ma solo la sua titolarità. Su tale questione soccorreva l’art. 1 della l. 1766 del 1927, secondo cui le terre delle associazioni agrarie seguono il regime degli usi civici delineato in generale dalla legge e pertanto, secondo quanto stabilito dall’art. 26 della stessa, devono ritenersi aperte all’uso di tutti i residenti.
La Corte, esaminando il primo motivo di ricorso, stabilisce che l’art. 26 della l.1766/1927, vietando la costituzione di nuove associazioni per il godimento promiscuo di terre, ha disposto che i terreni di uso civico delle associazioni siano aperti all’uso di tutti i cittadini del Comune o della frazione, salvo che si tratti di diritti spettanti “ a determinate classi di persone per disposizione speciale di leggi anteriori o per sentenza passata in giudicato”. La Corte soggiunge a quel punto che l’affrancazione in favore di tutti gli utenti ai sensi dell’art. 12 della l. n. 397 del 1894 non integri l’eccezione stabilita dall’art. 26 della l. n. 1766/1927.
Il punto è che l’affrancazione di quelle che la legge del 1894 chiamava “servitù” si traduceva nella creazione di una proprietà collettiva. L’argomento della Corte di Cassazione prova pertanto troppo: ogni proprietà collettiva nata dalla l. n. 397/1894 dovrebbe pertanto essere sostanzialmente liquidata, mercé l’apertura delle sue terre all’uso diffuso dei residenti. Una soluzione che presenta più di un dubbio di costituzionalità.
Cass. civ. Sez. II, Sent., 20-11-2014, n. 24714