Sarà discusso e approvato il prossimo 10 marzo il piano di indirizzo territoriale (con valenza di piano paesaggistico) della Regione Toscana. Adottato con delibera numero 58 del 2 luglio 2014, ai sensi della legge regionale 3 gennaio 2005 n. 1 (Norme per il governo del territorio), il piano di indirizzo territoriale è stato aperto alle osservazioni fino al 29 settembre. La giunta regionale ha quindi approvato con la delibera numero 1121 del 4 dicembre 2014 “l’istruttoria tecnica delle osservazioni presentate e le conseguenti proposte di modifica agli elaborati del piano”. Questa nuova versione del P.I.T. ha avuto quindi passaggi nelle commissioni competenti. A tre settimane della sua definitiva approvazione, i consiglieri del PD annunciano un maxiemendamento che porterebbe tutti i vincoli contenuti nel piano ad essere norme di indirizzo, venendo così incontro alle contestazioni fatte in questi mesi da tutti i settori produttivi, dalla viticoltura all’industria estrattiva. Da qui un crescendo di critiche verso il governatore Rossi, accusato di un improvviso cambio di rotta sul fronte della tutela del paesaggio a tre mesi dal voto regionale, in cui si candida a succedere a se stesso.
Critiche, queste, che evidentemente non tengono conto dei vizi del piano di indirizzo territoriale per come voluto dall’assessore all’Ambiente, che avrebbero esposto il P.I.T. a uno stillicidio di ricorsi amministrativi.
Il tema delle cave di marmo delle Apuane, che sembra dominare il dibattito di queste ore, ne è piena dimostrazione. Il P.I.T. vieta l’apertura di qualsiasi nuova cava e l’ampliamento di quelle esistenti, la ricarica dei ravaneti (gli accumuli di detriti) e anche lo sfruttamento dei giacimenti in sotterraneo, tecnica sicuramente più costosa della normale coltivazione a cielo aperto, ma diffusa nel comprensorio proprio per venire incontro alle esigenze di tutela ambientale.
Il problema non è solo se la Regione abbia il potere di cancellare con un atto amministrativo un intero settore industriale (cosa che rappresenta in sé una violazione di precise norme costituzionali): è che il P.I.T. non tiene in nessun conto il regime proprietario degli agri marmiferi delle Apuane, la più gran parte dei quali è in proprietà privata o collettiva.
La storia industriale delle Apuane è il frutto migliore di quelle riforme di Pietro Leopoldo tese a cancellare la titolarità universale dei beni per crearvi una proprietà piena ed esclusiva. Questa fu la premessa per ingenti investimenti, a volte sovvenzionati direttamente dal governo granducale, che fecero della Toscana il principale esportatore di marmi per tutto l’ottocento, con aziende che sono tra le più antiche tra quelle oggi esistenti. Una leadership che si trasferiva anche nell’elaborazione delle tecniche di escavazione e lavorazione.
Per condurre alla proprietà privata anche i terreni marginali, che non avrebbero trovato facilmente acquirenti, le Istruzioni granducali del 1776 disponevano poi che i naturali di un luogo avrebbero potuto consorziarsi per acquistare i loro beni civici e tenerli in comune come in passato. Questa norma, fatta per liquidare la proprietà universale, ne fece nascere una di diverso tipo: la proprietà collettiva agnatizia, la proprietà inalienabile e indivisibile della comunità fatta dagli eredi degli antichi “liberatori” dei beni. Variamente combattuta nell’ottocento, oggi la proprietà collettiva è vista come strumento di tutela ambientale anche dallo stesso Codice dei Beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 42/04 art. 142 lettera h), cui il P.I.T. dovrebbe dare peraltro attuazione.
I piani paesaggistici, come il P.I.T., possono certamente conformare la proprietà privata, limitarne l’esercizio a talune attività, ma non possono privare la proprietà privata di qualsiasi contenuto economico, lasciando magari al proprietario solo gli oneri. Non possono farlo con la proprietà privata, e men che meno con la proprietà collettiva, il che equivarrebbe a uccidere la comunità che da sempre è responsabile del proprio territorio, e lo tutela.