La lentezza della giustizia civile è un male endemico dell’Italia, più volte condannata per questo dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Oggi un articolo di Repubblica.it riprende una notizia pubblicata anche da altri giornali per trarne conferma: solo dopo ottanta anni è stata accertata la proprietà privata di un fondo di dieci ettari in Campania. L’articolo dà conto con toni scandalizzati di come la sentenza contenga “richiami persino al diritto feudale e al catasto francese del 1801”. Solo leggendo l’articolo viene esplicitato che si tratta non di un normale giudizio civile, ma di un processo innanzi al Commissariato per la Liquidazione degli Usi civici di Basilicata e Campania, iniziato nel lontano 1934.
Da quanto sembra di capire dallo scarno resoconto, il giudizio è stato intentato dal Comune di Arienzo, in provincia di Caserta, per vedere riconosciuta la natura demaniale civica del terreno. Non è ovviamente possibile pronunciarsi sulla sentenza senza averla letta (ma non è difficile presumere che nel giudizio abbia fatto la sua comparsa il principio ubi feuda ibi demania), ma una cosa si può dire: questo caso può solo in parte essere assunto come esempio del malessere della giustizia italiana.
Certamente i Commissariati agli usi civici non sono gli uffici giudiziari più presidiati dall’amministrazione della giustizia, ed è ben possibile che dietro ottanta anni di giudizio di primo grado vi siano Commissari dimissionari e mai sostituiti tempestivamente, ruoli che si sono gonfiati a dismisura e scarse risorse. In questo la giustizia commissariale patisce gli stessi problemi della giustizia civile, se non di più.
Occorre però anche considerare la peculiarità del giudizio commissariale, che non conosce cause di estinzione e prosegue per altro verso oggi a sola istanza delle parti. Quando fu creato nel 1927, il processo commissariale era largamente lasciato all’iniziativa del Commissario, che decideva da giudice su situazioni che avrebbe poi disciplinato con i propri poteri amministrativi. Una situazione accettabile in uno Stato totalitario, non in una democrazia costituzionale, e difatti il processo commissariale vede oggi un sostanziale restringimento dei poteri d’ufficio del Commissario, che è ora solo giudice, essendo state attribuite alle Regioni nel 1977 le funzioni amministrative in materia di usi civici.
Il tutto avrebbe richiesto un sapiente intervento del legislatore sul processo commissariale, che non c’è stato. Da qui, anche, vengono ottanta anni di giudizio, e chiunque si occupi professionalmente della materia sa che in tutti i commissariati d’Italia pendono cause iscritte a ruolo negli anni cinquanta e sessanta.
Di una cosa però non ci si può stupire: che si utilizzino in causa riferimenti al diritto feudale e catasti napoleonici (che costituiscono oltretutto l’impianto-ossia l’inizio- degli attuali): questo è nell’essenza del giudizio di accertamento degli usi civici. Se questi si riconoscono come diritti originari e imprescrittibili, che gravano sulla proprietà privata finché non vengono liquidati, non si può far altro che accertarli con la prova di fatti storici. Una materia su cui vi sono principi ormai consolidati in giurisprudenza, non tutti condivisibili, ma ampiamente conosciuti.
Stupiamoci quindi della durata del giudizio, non degli argomenti su cui esso si è spiegato per otto decadi: sono quelli di cui si dibatterebbe necessariamente anche in un giudizio commissariale che si dovesse iscrivere a ruolo domani. La responsabilità dello Stato è nel non aver predisposto regole di procedura al passo con i tempi, visto che, a quasi novant’anni dalla legge che avrebbe dovuto liquidarli tutti, oltre cinque milioni di ettari di territorio italiano siano ancora suscettibili di giudizio commissariale per l’accertamento di usi civici.