Pubblichiamo la sentenza della Supreme Court of Canada emessa oggi, 26 giugno 2014, che rappresenta una pietra miliare nel riconoscimento dei diritti di proprietà collettiva delle popolazioni indigene.
Questo il fatto: nel 1983 la Province del British Columbia concede a una ditta privata una vasta area spopolata per il taglio del legname da costruzione, tra le principali risorse dell’ovest canadese. La Nazione Tsilhqot’in si oppose in giudizio, chiedendo una dichiarazione giudiziale che inibisse lo sfruttamento commerciale della terra,e ingaggiando una trattativa con il governo del B.C. che non portò a risultati. La domanda giudiziale fu quindi cambiata per comprendere anche il titolo di proprietà delle popolazioni aborigene sul territorio (“aboriginal title”).
La Corte Suprema del British Columbia respinse le pretese della Nazione Tsilhqot’in sull’ampio territorio rivendicato, adottando una nozione restrittiva di titolo originario di proprietà (“aboriginal title”). Questa impostazione prevedeva che potesse darsi come proprietà originaria solo quella terra che fosse stata usata intensivamente dagli antenati degli odierni pretendenti e perciò delimitata da confini ragionevolmente definibili al tempo dell’instaurazione della sovranità delle potenze europee (“a narrower test based on site-specific occupation requiring proof that the Aboriginal group’s ancestors intensively used a definite tract of land with reasonably defined boundaries at the time of European sovereignty..”).
Nella sentenza di oggi la Corte parte dagli stessi presupposti adoperati nella sua precedente giurisprudenza, per definirli in un senso più ampio. Secondo la Corte Suprema, il titolo originario di proprietà è accertato quando si è in presenza di un’occupazione “sufficient, continuous and exclusive”.
Il fulcro della sentenza è nella definizione della consistenza dell’occupazione sufficiente per il conseguimento del titolo di proprietà originario. Essa deve essere valutata a partire dalla cultura delle popolazioni aborigene e dalle loro pratiche, comparando le stesse “con sensibilità culturale” a quanto è richiesto per common law per dare per costituito un titolo di proprietà sulla base di un’occupazione materiale della terra.
Applicando questo parametro, è evidente, a dire della Corte, che le popolazioni aborigene non hanno occupato solo i siti specifici ove hanno abitato, ma anche tutte le terre sulle quali usavano cacciare, pescare o di cui comunque sfruttavano le risorse naturali (“Occupation sufficient to ground Aboriginal title is not confined to specific sites of settlement but extends to tracts of land that were regularly used for hunting, fishing orotherwise exploiting resources and over which the group exercised effective control at the time of assertion of European sovereignty”).
Il punto, secondo la Corte, non è di diritto, ma di fatto: non esistendo una norma di common law che limiti alle sole aree di settlement la valida occupazione delle terre, abile a conseguire un titolo di proprietà si può cioè escludere per common law, il giudizio va condotto caso per caso dall’evidenza storica, verificando in concreto quali terre fossero continuamente usate dalle popolazioni e quali no.
Una volta stabilita l’estensione di queste terre, l’azione di governo può esercitarsi su di esse solo alla luce dell’art. 35 del Constitutional Act 1982. Per l’effetto, il Governo può limitare la proprietà indigena solo quando ciò è strettamente connesso al raggiungimento di finalità pubbliche, non può andare oltre quanto necessario nel farlo, e i benefici attesi devono essere superiori alla compressione dei diritti imposti alle comunità.