Un Comune in Provincia di Trento affitta nel 1987 una cascina di montagna con annesso terreno a un privato per un canone poco più che simbolico, a patto che il conduttore vi porti sostanziali rinnovi e ripristini, che costano allo stesso più di 140 milioni di lire dell’epoca. Con una prima delibera del 1990, il Comune ratifica un accordo con il conduttore con cui il contratto veniva prorogato al 31.12.2005 con un aumento del canone a 2 milioni di lire per cinque anni.
In corso di validità del contratto, nel 2001, il Comune adotta una nuova delibera, con cui decide unilateralmente di rideterminare il canone di concessione da 24 milioni di lire annue a 77 milioni di lire, con rivalutazione ISTAT per il periodo ancora largamente a decorrere dal 1.1.2001 al 31.12.2005, con la motivazione che “la deliberazione n. 48/1990 non era stata inviata per il prescritto parere al Commissario per la liquidazione degli Usi Civici e conseguentemente non aveva ottenuto l’autorizzazione alla sospensione del diritto di uso da parte della giunta provinciale per il periodo residuo 01/01/2001 al 31/12/2005”.
Il Consiglio di Stato stabilisce correttamente l’inesistenza di qualsiasi relazione tra la sussistenza di usi civici sul luogo e l’aumento del canone di affitto che nel suo ammontare originario trovava causa nei sostanziali lavori di ripristino fatti a propria cura e spese dal conduttore, sempre su approvazione del Comune. Con ciò il giudice amministrativo di ultima istanza fa giustizia della prassi, propria di molti enti locali, di invocare gli usi civici come causa puramente formale per annullare proprie delibere.
Su un altro aspetto la decisione del CdS è criticabile nel momento in cui afferma, fuori delle proprie competenze e senza idonea indagine, l’inesistenza di usi civici nel comprensorio in oggetto, caratterizzato ormai da tempo da ampio sviluppo degli sport invernali. Un’argomentazione che porterebbe gli usi civici a estinguersi per desuetudine, in patente contrasto con i principi di legge.